Il processo di progressiva democratizzazione del Myanmar ormai è stato innescato, ed è una strada lunga quella che il Paese ha davanti, fatta di piccoli passi, di riforme politiche, sociali ed economiche. Il vento del cambiamento ha portato molte organizzazioni internazionali a diminuire il loro impegno, ma com’è la situazione attuale? Ce ne parla in un’intervista Luigi Butori, da molti anni referente dell’AMU per le azioni a favore del campo profughi di Mae La, nel nord-ovest della Thailandia.
– Con il cambiamento della situazione politica in Myanmar, cosa è cambiato nella situazione dei campi profughi, e a Mae La in particolare?
La nuova situazione politica in Myanmar non ha modificato in maniera significativa la situazione dei profughi; ancora oggi molte persone preferiscono uscire dal Paese in cerca di condizioni di vita migliori in Thailandia. In Myanmar, infatti, si continua a soffrire e morire, soprattutto se sei karen o anche di un’altra etnia di minoranza. C’è da dire però che il governo sta negoziando la pace con i gruppi karen ed ha riconosciuto lo status di rifugiato a quelli nei campi profughi, cosa mai accaduta prima, in quanto erano considerati famigliari dei combattenti, e pertanto potevano essere perseguitati in ogni modo, dovunque e sempre.
Nel campo profughi di Mae La, al momento, la situazione è stazionaria. I viveri passati dalle varie ONG sono state diminuiti per scoraggiare nuove persone ad entrare anzi, ufficialmente, non è possibile entrare nel campo come nuovo rifugiato. Si attendono ancora le rilocazioni in paesi accoglienti e, se ci sono dei nuovi arrivi nel campo, questi sono parenti di chi è già presente. In definitiva, tutti hanno la speranza di poter essere accolti in un altro Paese.
Coloro che non riescono ad entrare a Mae La si dirigono verso la città di Mae Sot, ormai popolatissima di nuovi profughi che cercano di sfuggire ai controlli della polizia. Impossibile fermare quest’ondata di gente! Al governo thai fa comodo, in quanto significa mano d’opera praticamente a costo zero.
– Tornando a Mae La, attualmente quante persone ci vivono e in quali condizioni?
Al momento si parla di circa 21.000 persone registrate e 23.000 non registrate. Nei 7 campi profughi della Thailandia ci sono ancora circa 130.000 rifugiati. Le loro condizioni di vita sono pressoché le stesse di qualche anno fa, con l’unico cambiamento che ora arriva internet e si può telefonare. Non si sa quanta gente al momento sia senza documenti a Mae Sot. Giusto per dare una cifra, si parla di un milione di birmani (principalmente karen) nella zona metropolitana di Bangkok. Questo significa, in termini economici, davvero tanto per i thai e poco per i karen…
– Quale futuro si prospetta per i profughi di Mae La?
Il futuro più roseo è la “rilocazione” in un “terzo paese” accogliente. La prospettiva meno rosea è il ritorno in Myanmar. Il governo attuale ha tutto l’interesse e la volontà di non far continuare quest’esperienza dei campi.
– Ci sarebbe la possibilità di qualche azione significativa di sviluppo che non sia mera assistenza?
Sarebbe molto importante continuare ad aiutare i ragazzi a studiare, nei vari corsi di lingua e nei corsi professionali che ci sono nel campo.
– Oltre ai profughi di Mae La, l’AMU sostiene alcune scuole per bambini birmani a Mae Sot e Myawaddy. Ci sono anche altre iniziative a favore dei profughi?
Al momento siamo impegnati soprattutto ad aiutare le persone che non possono entrare nel campo profughi. Sono migliaia di persone che vivono nei campi di riso, vicino a piccoli rigagnoli d’acqua, e sono in condizioni davvero disperate. Non avendo nessun documento, la loro possibilità di vivere o sopravvivere sta totalmente nel “buon cuore” dei funzionari di polizia… una situazione veramente difficile e pericolosa. Assistiamo anche alcuni gruppi di persone che vivono un po’ dovunque nella città. E in Birmania continuiamo l’aiuto al Nazareth Center che si occupa dell’istruzione dei ragazzi e ragazze di etnia karen.